Il luogo dell’intimità pubblica e i reality show
Riceviamo e volentieri pubblichiamo:
Rovigo, 22 novembre 2008
ad Andrea Porcheddu
Caro Andrea
Vorrei contribuire anch’io, in qualche modo, al desiderio di ritrovare e rilanciare il gusto meridiano della dialettica, del confronto, della riflessione che muove meritoriamente il tuo laboratorio di scrittura critica.
La questione che ti pongo, e che mi pongo da diversi anni, è la seguente: come è possibile documentare l’esperienza del teatro, e tanto più quella, così particolare e credo unica, del Teatro del Lemming?
Rivendico in effetti al teatro la possibilità di realizzare per le persone che lo frequentano, sia per gli attori che per gli spettatori, un’esperienza. Ed un’esperienza per diventare cognitiva e per essere poi documentata, deve essere prima esperita personalmente. Per fare esperienza di qualcosa devo essere presente all’evento, devo vivere il “fatto” direttamente sulla mia pelle. Che questa mattina a Rovigo splenda un bellissimo sole è un semplice fatto, perché se ne dia esperienza occorre essere presenti a questa luce, a questo cielo improvvisamente terso e chiaro dopo giorni e giorni di nebbia e pioggia.
E allora ti domando: può esistere a teatro un osservatore esterno? Qualcuno che osserva gli altri, gli attori, mentre sono intenti a “vivere l’esperienza”? Non è forse questo il ruolo da sempre, dirai tu, dello spettatore, e tanto più di un osservatore critico: analizzare dall’esterno, lucidamente, le dinamiche emotive che si scatenano sulla scena?
Rispetto a questo assunto, che oggi suona a tutti come indiscutibile, i Greci, a cui il pensiero meridiano deve rivolgersi come alla propria fonte, avrebbero avuto parecchie perplessità. Ne LE BACCANTI di Euripide, come sai, DIONISO, il dio del teatro, rivendica insistentemente la reciprocità degli sguardi ad un PENTEO, prototipo dello spettatore/critico moderno, che vuole vedere le baccanti senza partecipare al suo rito. Ma non si può restare esterni al teatro di Dioniso, si può solo rifiutarlo, come appunto fa Penteo – che però cerca in tutti i modi di spiarlo di nascosto – o prenderne parte attiva.
Da più di vent’anni pratico un teatro in cui il senso ed il ruolo dello spettatore e dell’osservatore critico sono radicalmente ripensati. Nomino per questo il teatro che faccio “teatro dello spettatore”. Un teatro che non esclude nessuno, ma che anzi cerca di includere a pari titolo ciascun partecipante, anche il critico più distaccato, all’interno dell’esperienza teatrale.
Penso che la questione dello spettatore sia la questione che il teatro deve porsi se vuole trovare oggi ancora una ragione di esistere. E credo che nell’epoca della comunicazione di massa il teatro deve riuscire a parlare a ciascun spettatore partecipante, rivolgendosi direttamente ad ogni singola soggettività. Se lo spettatore oggi, infatti, è diventato paradigma della nostra condizione comune di cittadini, sempre più passivi e impotenti, lo spettatore teatrale può essere, al contrario, esempio concreto di un ritorno ad una diversa e attiva forma di partecipazione civile, poiché il teatro può proporsi innanzitutto, com’è il nostro caso, nella sua natura di esperienza condivisa.
E d’altra parte se la nostra società è davvero diventata una “società dello spettacolo”, invadendo qualunque espressione sociale, il compito del Teatro, a me pare, è diventato quello di affermare per sé uno statuto non spettacolare. Riportare così, come da anni cerchiamo di fare, il teatro ad una dimensione rituale, da cui pure esso sgorga originariamente, significa affermare oggi la sua funzione e la sua necessità. Da questo punto di vista il teatro – da tempo – dovrebbe essere considerato non più luogo della finzione – che lasciamo volentieri all’infera spettacolarità diffusa – ma come luogo della rivelazione (Theatron, appunto), dovrebbe essere cioè in grado di costituirsi come regno dell’Anti-finzione. In altre parole: o il Teatro è in grado di proporsi come momento di Verità e conoscenza per una comunità di attori e spettatori considerati nella loro singolarità personale – perché non vi è autentica profondità che quando può realmente effettuarsi una comunicazione umana e una tale comunicazione non può darsi in mezzo alla massa – o il teatro non ha più alcuna ragione di esistere. Come vedi, anche qui, il Teatro di Antigone si oppone al Teatro di Creonte.
Ma un teatro siffatto, come osserva una tua giovane allieva, confinato a pochi spettatori, non finisce per restare un teatro privato? O, che anche peggio, questo scambio di affettività, come afferma un’altra tua giovane allieva, non finisce per far perdere allo spettatore, tornando alla vita quotidiana, “ogni minima speranza nello scambio di gesti affettuosi sentiti e gratuiti”?.
Fra i molti modi mi piace pensare al teatro come il luogo dell’intimità pubblica. C’è una grande differenza fra privato e intimo. Il privato resta privato. O almeno così dovrebbe. Può esistere invece un luogo in cui l’intimità più profonda, normalmente confinata alla sfera privata, può essere condivisa pubblicamente: questo luogo è il teatro. L’intimità pubblica alla quale mi riferisco è ovviamente l’opposto di quello che accade in un “reality show”. Lì l’intimità delle persone è prostituita e mercificata davanti ad uno schermo in cui si è ridotti a spiare, come lo spettatore/Penteo le Baccanti, il piacere o lo strazio degli altri. A questo sguardo pornografico il nostro teatro oppone una relazione fondata, al contrario, sulla reciprocità relazionale. Nel catastrofico ottundimento delle intelligenze, mi sembra triste che si faccia fatica a cogliere l’evidenza di questa antitesi.
Se una autentica reciprocità a teatro viene colta come possibile, si apre allo spettatore, semmai, al contrario di ciò che afferma la tua allieva, il desiderio di pretendere una maggiore autenticità dalle relazioni esperite nella propria vita di ogni giorno. Mi pare che questa tensione, questo desiderio, testimoni della attualità e della funzione politica del nostro lavoro.
Mi permetto di concludere citando Mario Perniola. Egli afferma che la “comunicazione mediatica è l’opposto della conoscenza. Essa è nemica delle idee perché le è essenziale dissolvere tutti i contenuti. L’alternativa”, che egli identifica con l’estetica e con l’arte teatrale, “è un modo di fare basato su l’immaginazione, su un disinteresse interessato che non fugge il mondo ma lo muove”.
Occorre decidere da che parte stare. E questo, se permetti, riguarda in particolare lo stato deprimente del pensiero critico in Italia. Per documentare un’esperienza, tanto più quella così specifica del Lemming, occorrono modalità che sappiano sfuggire la piccola recensione dal titolo ad effetto, le ironie da trattoria, le faccine più o meno sorridenti dei quotidiani. Ci servono spazi reali di riflessione, di frequentazioni critiche davvero approfondite, in grado di conservare e produrre pensiero e riflessioni estetiche.
Non dico che occorra tornare all’epoca in cui professori e critici di teatro erano relegati a pulire lo spazio scenico durante le pause di lavoro degli attori dell’Odin, ma certo occorre pensare a un modo in cui il lavoro critico si affianchi alle modalità del lavoro artistico con meno superficialità e supponenza, nel tentativo di comprenderne profondamente la portata emotiva, le regole, i pensieri, i nessi strutturali.
Sono dispiaciuto di non essere riuscito a concordare insieme un modo per stabilire una presenza concreta e significativa per il gruppo dei tuoi giovani allievi al Laboratorio che ho realizzato, peraltro con grande entusiasmo, alla Biennale. Sono certo comunque che troveremo un’altra occasione. Magari a partire dal debutto del lavoro su ANTIGONE che avverrà proprio alla Biennale di Venezia fra qualche mese, a fine febbraio 2009.
Un saluto
Massimo Munaro
Ciò che resta è la poesia.
Conclusosi il terzo e ultimo incontro con il poeta Adonis dispiace pensare di non poter più ascoltare le sue parole, di non poter attingere più alla sua sensibilità e alla sua conoscenza. Unica consolazione resta la possibilità di incontrarlo di nuovo nei suoi libri, in cui saranno le poesie a condurci per i sentieri del dubbio.
Adonis infatti lo ripete anche in questa occasione, nella descrizione di se stesso che precede il silenzio della fine: è uomo che cerca, che rifiuta, che pone interrogativi per poter andare oltre e dubitare di sé e del mondo. L’importante è chiedere, fare domande a noi stessi e a coloro che ci presentano verità preconfezionate.
Tema della giornata è la poesia araba: versi di poeti arabi di Sicilia vengono letti prima nella lingua originale e poi tradotti in italiano, per far assaporare meglio suoni e significati. Già durante gli anni dell’occupazione araba dell’isola, che vanno dall’827 al 1091, i poeti tendevano ad arabizzare la descrizione della Sicilia, così come gli europei hanno occidentalizzato l’Islam. Nelle poesie la natura siciliana viene ricreata con la memoria della natura araba, e questo processo per Adonis è sbagliato, poiché la poesia non può essere memoria che porta a non vivere nel presente; la poesia, la libertà devono essere anti-memoria, per poter possedere quella forza che le spinga a varcare i confini e a non parlare solo del passato, ma a creare e ricreare all’infinito. Solo così l’arte potrà cancellare le differenze geografiche.
Alla richiesta di parlare della sua opera, il poeta si ritrae imbarazzato. Non può parlare di se stesso, perché lui non sa chi è, è ignorante sul sé. Secondo lui un poeta non può conoscersi, pena l’impossibilità di scrivere. Quando inizia a comporre Adonis non sa dove lo porteranno le parole: quelle d’inizio possono scivolare al centro o alla fine della poesia, generando nuove possibilità proprio come speriamo facciano le domande che sono nate da questa serie di incontri.
Adonis non sa come un intellettuale possa riuscire praticamente a cambiare le cose, oltre che con petizioni e manifestazioni. Comprende tuttavia la necessità che esso sia radicato nella struttura sociale, in modo tale da poterla rodere e distruggere dal di dentro.
I semi sono stati lanciati; speriamo che la volontà e gli eventi futuri li aiutino a germogliare in tutti coloro che hanno voluto accoglierli.
La poesia araba: anti-Duchamp, anti-religione, anti-memoria
Adonis arriva all’Arsenale con la valigia, pronto per lasciare Venezia. Ma prima di partire vuole chiudere con un’analisi personale della poesia araba, andandone ad analizzare gli elementi fondanti.
Per gli arabi, spiega, la poesia è considerata arte, ma nell’accezione di artefatto, industria; il termine arabo utilizzato corrisponde al greco techné. La poesia è considerata un’opera d’arte come un bel tappeto, ma intessuto di sentimenti. La poesia araba è fatta di “contemplazione ed emozione”.
Poi, all’inizio del ‘900, la distanza tra arte e realtà si riduce. L’arte diventa come uno specchio, ricompattandosi con la vita. Ma se si è troppo vicini allo specchio non riconosciamo più il nostro volto. La distanza, dice Adonis, è necessaria. La poesia non è un readymade, e ironizzando sull’arte post-Duchamp, apre un libro di poesie e incastrando un badge nella fessura delle pagine esclama: “questa è la mia scultura!”.
La poesia guarda alla natura ed alla realtà per costruire nuove immagini, per svelare un nuovo universo. Nella poesia araba la composizione musicale (Adonis la definisce, in alcuni casi, polifonica) diventa un ponte tra il poeta e l’esistenza volta ad arricchire non solo la lingua ma anche il mondo in cui si vive. Secondo un antico proverbio arabo “il poeta è colui che sente quello che gli altri non sentono”.
Ma secondo la Sura XXIV del Corano, i poeti “Non vedi come errano in ogni valle, e dicono cose che non fanno?”. E questo è un altro elemento fondamentale, e troppo poco considerato secondo Adonis, della poesia araba: la sua anti-religiosità, dipendente dal fatto che non è stata influenzata dall’Islam. Il poeta siriano riconosce l’influenza della religione in tutta la cultura araba, ad eccezione della poesia, ma lui stesso non sa dare una spiegazione a questo fenomeno.
Adonis conclude la sua analisi sulla poesia definendola, anche, anti-memoria; per necessità. Imprigionati nella memoria e nella storia non si può comporre poesia. è necessario trasgredirla, andare oltre la memoria per poter aprire nuovi orizzonti creativi nel presente. In questo modo si possono cancellare le definizioni geografiche dell’arte, che diventa universale ed unificante. Guardando sempre all’oriente occidentalizzandolo o all’occidente orientalizzandolo, non si riesce mai a vedere davvero l’altro. La poesia può aiutare a uscire dai limiti della propria visione per “unire l’umanità in un’unica casa” – afferma Adonis -, e sente di non essere solo: leggendo Goethe, Baudelaire, Rimbaud scopre una visione affine. D’altronde, conclude, Rimbaud con l’espressione “io sono l’atro”, cosa poteva intendere per altro se non l’orientale?
Adonis ci saluta recitando alcune poesie: prende in mano il libro distruggerendo così la sua scultura-readymade.
Un germoglio di dialogo
Seconda mattinata della lectio magistralis del poeta Adonis. Lo Scirocco soffia fuori dal Teatro Piccolo Arsenale, e stimola con la sua provenienza africana il dibattito, quel dibattito che è il fulcro e il fine di questa Biennale Teatro.
Così, dopo aver introdotto concetti fondamentali sull’identità, proposti nel passato da grandi mistici arabi, il poeta stuzzica il pubblico con una domanda diretta: è possibile creare un’identità mediterranea per poter poi costruire un dialogo mediterranfotoeo?
Dopo l’iniziale timidezza, una donna avanza l’ipotesi che la cultura sia la via. Adonis è d’accordo, poiché per lui l’ambito culturale è l’unico in cui possa esserci dialogo, dialogo creativo. L’arte, come l’amore, è ciò che permette all’essere umano di sentire il proprio esistere. Per questo bisognerebbe incrementare i dibattiti culturali; questi sono più fruttuosi, creatori di storia e identità, ed anche meno costosi di quelli politici ed economici, definiti dal poeta irreali in quanto portatori di benefici immediati che sfumano velocemente.
Grazie alle numerose domande e osservazioni del pubblico il poeta continua le sue riflessioni. Gli antichi mistici arabi insegnano che è necessario un rifiuto dell’identità precostituita per poterne creare una propria, fatta di pensieri ed azioni. Per Adonis la verità non è ciò che ci viene insegnato e che proviene dal passato, ma ciò che viene sviluppato e condiviso da un gruppo per proiettarlo verso il futuro. Il sé per se stesso non esiste, salvo che nella relazione con l’altro, un altro lontano nel tempo e nello spazio. Ma per il poeta è importante anche il recupero di quella parte femminile che è in ciascuno di noi, perché, come dice il filosofo e mistico Ibn Arabi del XII secolo, “Tutti i luoghi che non acquisiscono il femmineo non valgono niente”. Francesca Maria Corrao, traduttrice dell’opera di Adonis, presente all’incontro, ricorda come questo concetto si ritrovi anche nella nostra cultura, in particolare in Dante, che sceglie Beatrice per arrivare a dio e non il maestro Virgilio. Si tocca così anche il problema della donna moderna nei paesi arabi, riferito in particolare all’esistenza delle scuole coraniche che incrementano atteggiamenti misogini e che trovano l’appoggio dei religiosi integralisti, dei governi locali e dei politici occidentali, che stimolano l’intolleranza con guerre e taciti accordi.
E proprio la politica, l’economia e l’evoluzione della tecnologia sono riusciti a trasformare gli esseri umani in strumenti: l’uomo esiste in quanto strumento fisico, politico o religioso, e non per se stesso, tanto da considerarsi ormai un soggetto inesistente.
L’ultima domanda, pronunciata da una giovane organizzatrice di eventi, sposta la questione su un piano pratico: come possiamo eliminare “i mostri”, “quei retrogradi conservatori dei capitalisti, possessori dei mezzi di comunicazione”, dato che abbiamo bisogno del loro denaro per allestire progetti concreti? Adonis ammette la necessità di una collaborazione, ma ad una condizione: non farsi monopolizzare né pilotare. La conversazione è finita per oggi, ed ha arricchito gli ascoltatori di nuove domande su cui meditare. Ma rimane un dubbio: avrà incoraggiato qualcuno dei presenti a una maggiore apertura mentale o a un’azione creativa pratica, o chi avrebbe maggiormente bisogno di stimoli in questa direzione non era in teatro ma per le vie cittadine? Riuscirà la Biennale a stimolare un dialogo diffuso, sentito e soprattutto che porti dei risultati tangibili?
Il Mediterraneo: madre che accoglie in sé la Diversità
Laboratorio: parola chiave in una Biennale Teatro dove l’aspetto spettacolare è relegato in un angolo per lasciare spazio a dialoghi, progetti, confronti, incontri. Curato dalla coraggiosa scrittrice teatrale serba Biljiana Srbljanović, Arcipelago mediterraneo ne è un esempio. Giovani scrittori del Corso di drammaturgia della Scuola d’Arte Drammatica “Paolo Grassi” di Milano, insieme ad altri autori selezionati dalla Biennale stessa, mettono alla prova il loro talento.
Lo scopo è di creare dei microdrammi sull’idea di Mediterraneo, spazio che diventa stato mentale e luogo percepito diversamente da ciascuno. In questo primo incontro del 28 ottobre, nelle sale della Fondazione Scuola di San Giorgio, con estrema semplicità la drammaturga parla di sé, della propria terra ferita e trasformata: una terra che per motivi politici non è più affacciata sul mare ma che nell’immaginario dei suoi abitanti lo rimarrà per sempre. La Srbljanović spinge i suoi allievi alla riflessione, chiede che cosa evochi in loro questo mare, se esso rappresenti un luogo di confine fisico, una frontiera come nel caso di territori e di Stati. Unico nella sua forma, con lunghe o brevi traiettorie da attraversare, luogo fisico e mentale che unisce e che divide, il Meditteraneo è un mare legato al nostro bagaglio culturale piuttosto che essere limitato alla sua posizione geografica. Le risposte sono le più diverse: odori, colori, viaggi, popoli antichi e popoli stranieri, confini, guerre, caos e ostilità. Ma anche in questa giornata torna un’immagine del mare che si riflette nella donna; un Mediterraneo che pur contenendo in sé l’accezione maschile ricorda una madre, un parto, una nascita. Una culla di culture, un grande abbraccio di Diversità.
Apertura al dialogo verso l’altra parte del proprio Io
Intensa lezione di vita quella che si è svolta nella mattinata del 28 ottobre al Teatro Piccolo Arsenale con la conferenza tenuta dal poeta siriano-libanese Adonis per il mini ciclo di incontri La bellezza del dialogo, una cornice per costruire il dialogo. Da tempo impegnato nella questione odierna del confronto tra Oriente e Occidente, Adonis decide di parlare dalla parte di sua madre, nella lingua che più gli appartiene, quella araba, poiché il francese rappresenta – come lui stesso afferma – la sua ‘lingua padre’. È un Oriente-madre, infatti, quello che introduce attraverso la leggenda di Europa, la figlia di Sidone rapita da Zeus dalla sponda del Levante mediterraneo e portata con sé sulla riva occidentale: è così che nell’immaginario arabo nasce la storia europea, con un gesto d’amore e con un viaggio. A questi due principi si affiancano quelli di sapere e conoscenza trasmessi da Cadmo, fratello di Europa, che parte solo con il suo Alfabeto alla ricerca della sorella. Un punto chiave di riflessione viene rappresentato dalla cultura e dall’essenza stessa dell’uomo che non si realizzano senza ritrovare l’Altro, parte costituente del proprio Io. Ma l’apertura verso l’Altro si trasforma in una chiusura con l’avvento delle religioni monoteiste, dove la verità non proviene né dalla natura né dall’esperienza umana, ma dall’alto, dalle parole di un dio, divenendo una visione assoluta e non più parziale. Si nega la pluralità e ciò è ben visibile nella produzione artistica che da ricca e vasta diventa debole, povera e mutilata: se gli intellettuali e gli artisti contrastano il pensiero religioso vengono emarginati, attaccati, esiliati. I toni di Adonis si inaspriscono, si fanno più critici e duri nei confronti di un Mediterraneo dove le religioni si sono trasformate in ideologie e hanno preso il controllo delle nostre vite. L’importanza dell’esperienza religiosa – che il poeta paragona a quella amorosa e creativa – passa in secondo piano: la fede si tramuta in istituzione, politica, stato, conflitto. In questa lectio magistralis, a un pubblico attento viene chiesto di porre uno spazio tra il proprio essere e quella cultura fondata sul monoteismo, per poterla mettere in questione, rifondare. Per non lasciare che il dialogo sia un’utopia ma per renderlo reale, sincero e farlo apparire in tutta la sua bellezza.
Concerto per una città che prende il volo
Adonis – poeta siriano libanese – è autore e interprete dello spettacolo Concerto per il Cristo Velato, che si è tenuto ieri, 27 Ottobre, al Teatro Piccolo Arsenale. Il testo, recitato nella lingua madre del poeta, evoca le immagini di un breve soggiorno napoletano e si ispira alla scultura di Sammartino – da cui prende il titolo. La lingua araba risuona nello spazio della scena vuota, intessendo un dialogo con le musiche jazz di Francesco d’Errico (pianoforte), accompagnato da Daniele Esposito (contrabbasso) e Silvio Vassallo
(batteria). Le sei composizioni sono state immaginate a partire dalla luce emotiva del testo, insieme ad una installazione sonora, trattamento “concreto” della voce del poeta.Volavano le vie di Napoli, come non vidi altrove. lunedì diciotto febbraio dell’anno 2002… Un’onda in forma di scultura e l’acqua fazzoletto increspato trasparente tra le pieghe di tutte nel descrivere il dolore narrano il corpo: Adonis conduce il pubblico tra le vie di una città che prende il volo, crocevia di culture e di razze, ne attraversa la storia e il mistero, si riscopre rapito. Rende omaggio al dio-fiume Nilo, vecchio barbuto sdraiato sull’acqua, memoria del popolo egiziano, testimone di un tempo lontano.
La poesia si fa leggera, diventa suono, ridiscende tra le mura di un caffè, ne respira i profumi e continua ad andare, si incammina giocosa nei vicoli, accompagnata da giovani amici. Poi ritrova il mistero e si ferma, lo ammira, il tempo è sospeso di fronte all’abilità sensibile di un capolavoro di scultura, che rivela il dolore del Cristo Velato. Le immagini rese fantastiche dalle parole di Adonis, si intrecciano a riflessioni gentili: il suo sguardo diventa interiore e riflette il suo essere uomo.
Il poeta e il contemporaneo
È limpido, Adonis. Di una limpidezza disadorna e morbida, che si riflette nelle sonorità della lingua che
ha scelto oggi per parlare di società e di dialogo: la lingua araba, lingua-madre, che si oppone idealmente alla lingua-padre francese, inflessibile idioma della cultura costruita e del vincolo.
Questa mattina si è concluso il primo appuntamento con le lectio magistralis condotte dal poeta siro-libanese (dal 28 al 30 ottobre al Teatro Piccolo Arsenale di Venezia), con il coordinamento e la traduzione di Francesca Corrao. L’arabo non è una lingua frontale, si accosta all’oggetto attraverso una visione laterale che consente di svelarne solo un aspetto (non la sua interezza), di proiettarvi un’ombra senza oscurarlo del tutto, delineando un piccolo fotogramma che, anche nella sua accezione più neutra, esprime sempre un punto di vista implicito, un piccolo focolaio di coscienza.
Se definiamo una cosa per quella che è – afferma Adonis – l’abbiamo già uccisa. E qui entra in gioco la poesia, il cui linguaggio è sfuggente in quanto infinito, in continua metamorfosi. Ciò pone dei seri problemi per la traduzione, soprattutto se si riferisce a idiomi nitidi e squadrati come la maggior parte di quelli europei. Come è possibile allora capire la parola del poeta?
Adonis fa una riflessione interessante quando dice che se il traduttore riesce a produrre una versione linguistica appropriata della poesia, crea una poesia a sua volta. È come se il testo originario fosse il nucleo mobile per lo sboccio di infiniti altri testi. Il fatto che lo stesso testo, in mano a persone diverse, venga recepito e rielaborato a molteplici livelli di significato, è indice della ricchezza intrinseca del testo stesso, non di un’implicita vaghezza di contenuti.
A chi obietta che nella traduzione è fondamentale la conservazione del messaggio del poeta, Adonis risponde con grande cortesia che, per quanto lo riguarda, “il poeta non ha un messaggio da trasmettere alla memoria del lettore”, e si distacca con un taglio netto dalla poesia ideologica, che si addossa l’incarico di riassumere e inoculare determinati valori.
La poesia, secondo Adonis, approfondisce la propria esperienza esistenziale, e in quanto tale è strettamente personale e interpretabile. E il traguardo è riuscire ad afferrare la chiave giusta per spalancare l’occhio del lettore sulla bellezza e sulla sensibilità del mondo. In questo senso il connubio poesia-ideologia è una sorta di idolo vuoto. Fondamentale, in quanto evidenzia la frattura tra Adonis e le istituzioni politiche e religiose, è la sua concezione del poeta come generatore di domande, non come assiduo produttore di risposte cristallizzate. Il poeta Adonis crea un orizzonte di questioni, è un organo dialogico che deforma e danneggia con garbo i limiti tra il sé e l’altro, mettendoli in costante discussione.
Dalla poesia al mondo e ritorno
Adonis, pseudonimo che accompagna Ali Ahmad Said Esber dall’età di diciassette anni, è considerato fra i maggiori poeti arabi contemporanei. Siriano d’origine, ma libanese d’adozione (ha ottenuto la cittadinanza nel 1955, dopo esservisi rifugiato per ragioni politiche), dal 1985 ha deciso di vivere a Parigi, luogo da cui gli è stato possibile, attraverso le numerose traduzioni, con conferenze e lezioni, diffondere e far conoscere la cultura araba nel mondo occidentale.
Benché l’attività di Adonis sia conosciuta soprattutto per la sua opera poetica, resta fondamentale il suo impegno sociale e culturale: il poeta è anche autore di saggi a carattere politico-culturale che, muovendosi fra storia e attualità, tentano di individuare i movimenti, le dinamiche, le trasformazioni in atto fra il mondo arabo e quello occidentale.
Da sempre impegnato nel rinnovamento culturale del panorama creativo libanese, è stato, nel 1957, fra i fondatori di Shi‘r poetry magazine, prima rivista d’avanguardia poetica del mondo arabo che si è poi trasformata in un vero e proprio laboratorio del pensiero contemporaneo: il magazine si occupava apertamente di vari temi, spazio per vivaci discussioni che spaziavano dall’arte alla critica, alla politica. Terminata l’esperienza di Shi‘r nel 1967, Adonis ne raccoglie l’eredità e crea nel 1968 al-Mawāqif (Posizioni); l’idea-guida della rivista – quella che la creatività dell’artista possa anticipare tendenze culturali future e sia capace di cambiare il modo di vedere le cose – è centrale in tutta l’opera di Adonis: «Credo che la poesia abbia un gran ruolo nel cambiamento delle società, non è un ruolo pratico, nel senso che non è la poesia che cambierà il mondo, ma può aiutare l’essere umano a trovare le strade giuste per farlo».
Il canone artistico promosso da Adonis – e il ruolo dell’artista nella società che ne deriva – porta con sé tensioni sostanziali nei confronti del mondo arabo contemporaneo: nella civiltà islamica ogni gesto si inserisce in un senso di predestinazione totale – dimensione in cui è difficile inserire idee come la capacità di cambiare il mondo da parte dell’arte. Ma la stessa critica operata nei confronti dell’immobilità conservatrice della società araba viene applicata – diversamente, ma con simile durezza – alla cultura delle macchine occidentale, che diffonde un senso di stasi affine: si tratta di una sorta di coincidenza fra macchina divina e automazioni umane e, come sottolinea spesso Adonis, in arabo i due termini (dio e macchina) conservano un’assonanza sorprendente.
Più volte il poeta ha sottolineato di temere coloro che possiedono risposte precise per tutte le domande: «Credo che l’esistenza ci ponga di fronte a domande a cui non è possibile dare una risposta precisa, univoca e definitiva. Non si può dare risposta a tutto».
Ed è la poesia, come l’amore, – che non tenta di rispondere, ma continua a porre domande – una possibile chiave di rinnovamento sociale e culturale, che può scardinare il potere di quella forza livellatrice, conservatrice e onnivora, della macchina, sia essa divina o tecnica: l’impegno di Adonis, poeta ed intellettuale, è dunque quello di aprire la strada alla costruzione del futuro proprio dal cuore del presente, da un cambiamento interiore personalissimo capace di estendersi spontaneamente nei diversi livelli della produzione culturale e dell’interazione sociale.
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